Alessandra Kersevan – Rede Kulturhofkeller Oktober 2011

I campi di concentramento italiani per civili jugoslavi

Fino ad alcuni anni fa in Italia, e dunque in Europa e nel mondo, si sapeva poco o niente dei campi di concentramento fascisti. La parola campo di concentramento nell’immaginario collettivo si identificava solo con quelli nazisti. Ciò era causa e nello stesso effetto di una strana autorappresentazione che gli italiani hanno di se stessi, come di un popolo che in guerra si è sempre comportato in maniera molto diversa dagli altri, senza esercitare particolare violenza, ma portando la civiltà e facendosi amici i popoli, anche quelli aggrediti: italiani brava gente. A questo scopo si fa spesso il confronto con il comportamento di altri eserciti, per esempio con quello tedesco e, nel caso dei campi di concentramento fascisti, il confronto viene fatto, con intento autoassolutorio,  con quelli nazisti.

È una presa di coscienza che stenta a svilupparsi, in Italia, anche per una certa confusione esistente nel pensiero comune su come si siano svolte le vicende della seconda guerra mondiale, che hanno visto l’Italia, prima come paese aggressore ed occupante, alleato della Germania hitleriana, e poi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, come paese aggredito ed occupato dagli stessi ex alleati nazisti; così i ricordi spesso si confondono e rimane nella memoria solo la parte della storia che vede l’Italia come vittima dell’aggressione nazista. Così, per esempio, su un quotidiano, alcuni anni fa, il campo di Gonars veniva definito un “campo nazista”. Invece il campo di  Gonars, così come quelli di Visco in Friuli, di Arbe, Fiume, Melada, Zlarin, Bar ecc. in Dalmazia, di Treviso, di Padova, di Renicci in Toscana, di Colfiorito in Umbria, di Cairo Montenotte in Liguria, di Fraschette di Alatri in Lazio e decine di altri più piccoli in tutte le regioni d’Italia sono una faccenda tutta fascista e italiana; nazisti e tedeschi in questo caso non c’entrano, se non come alleati nell’aggressione alla Jugoslavia. I responsabili dei crimini italiani nei Balcani sono i più bei nomi del gotha dell’esercito: i generali Mario Roatta, Mario Robotti, Gastone Gambara, Taddeo Orlando (…). Si aggiungano i governatori della Dalmazia Giuseppe Bastianini e Francesco Giunta; l’altocommissario per la provincia di Lubiana, Emilio Grazioli; il governatore del Montenegro, Alessandro Pirzio Biroli.»

Per capire la storia di questi campi di concetramento italiani per slavi, è necessario partire dagli ultimi anni dell’Ottocento, con il diffondersi nella classe dirigente italiana di quel pregiudizio antislavo che avrebbe fatto da supporto ideologico prima alla repressione delle minoranze slovena e croata, e poi alla guerra di aggressione e a tutte le efferatezze compiute in nome della superiore civiltà italiana. Le terre che vanno sotto il nome di Venezia Giulia, fino alla prima guerra mondiale facevano parte dell’Impero d’Austria Ungheria, ed erano terre in cui convivevano tante nazionalità e tante lingue, come si vede da questa cartina preparato da un irredentista italiano in base al censimento austriaco del 1910. Queste terre furono annesse all’Italia, dopo la fine della prima guerra mondiale. Un confine mobile, quello orientale d’Italia, che fino alla seconda guerra mondiale si è espanso sempre più a est tanto che più della metà della popolazione della Venezia Giulia era costituita da sloveni e croati che, in base al pensiero nazionalista dominante nel ceto politico italiano, dovevano essere italianizzati o in altri modi eliminati. 

Un forte pregiudizio antislavo era già diffuso nella classe dirigente italiana come una delle caratteristiche dell’irredentismo italiano, che diventava vero e proprio razzismo. Un esempio è dato dall’impressionante linguaggio usato da personaggi come il triestino Ruggero Timeus Fauro, considerato uno dei martiri della prima guerra mondiale, il quale  prima della guerra sosteneva che «Se una volta avremo la fortuna che il governo sia quello della patria italiana, faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati».

D’altra parte Mussolini affermava a Pola nel 1920 che bisognava «espellere questa razza barbara, inferiore slava da tutto l’Adriatico».

È con questa mentalità e con questi intenti che i ceti al potere in Italia si apprestarono a portare “la civiltà italiana” in queste terre. Così, nella Venezia Giulia, lo squadrismo fascista fu particolarmente efferato.

Fra le azioni squadristiche ricordo nel luglio del 1920 l’incendio del Narodni Dom, la casa della cultura degli sloveni e croati di Trieste la strage di Strunjan-Strugnano, un paese vicino a Capodistria, nel marzo 1921, quando squadristi fascisti spararono da un treno in corsa, su un gruppo di bambini intenti a giocare, uccidendone due e ferendone gravemente cinque. 

Con la presa del potere da parte di Mussolini, questa aggressività fascista si trasformò in leggi ben precise e provvedimenti di persecuzione culturale, economica e poliziesca contro gli slavi, tendenti alla bonifica nazionale, cioè all’eliminazione della presenza slovena e croata nei territori della cosiddetta Venezia Giulia: imposizione dell’italiano come unica lingua, italianizzazione di nomi e toponimi, proibizione di parlare in sloveno o croato in qualsiasi luogo pubblico, chiusura di giornali, sedi culturali ed economiche di sloveni e croati, uso esclusivo della lingua italiana nell’amministrazione; licenziamenti; requisizione delle terre di contadini sloveni e croati attraverso la persecuzione fiscale e loro assegnazione a contadini provenienti da altre regioni; repressione poliziesca e deferimento al tribunale speciale, gran parte delle cui condanne – anche a morte – riguardarono proprio antifascisti della Venezia Giulia sloveni e croati, fucilati poi a Basovizza e a Opcina. Non va dimenticato, inoltre, che dopo il Concordato del 1929, anche i vertici della Chiesa si adeguarono, negando l’uso di sloveno e croato nella liturgia. Molti parroci però si opposero a queste imposizioni.

Questi provvedimenti e tanti altri anche più gravi che sarebbero stati poi attuati nel periodo fascista furono la causa del primo grande esodo dalla regione, che interessò circa 100 mila sloveni e croati, che si rifugiarono nel Regno di Jugoslavia o emigrarono in altri paesi. 

Se la repressione fascista contro sloveni e croati fu dura nel ventennio, le cose divennero ancor più tragiche con la seconda guerra mondiale e l’aggressione nazifascista alla Jugoslavia: il 6 aprile 1941, senza dichiarazione di guerra, iniziò l’attacco dell’esercito tedesco e dell’esercito italiano, che insieme con ungheresi e bulgari invasero la Jugoslavia. Belgrado venne bombardata dall’aviazione tedesca e il paese, che allora era un regno, si arrese nel giro di pochi giorni. La Jugoslavia venne smembrata e i vari pezzi divisi fra i partecipanti all’aggressione. All’Italia toccarono parecchi territori, con i quali poté coronare il vecchio programma imperialista di dominio sull’Adriatico. Alcuni di questi territori vennero annessi e diventarono nuove province, come la provincia “italiana” di Lubiana, la provincia di Spalato, la provincia di Cattaro; il Montenegro divenne un protettorato italiano e il Kosovo fu annesso all’Albania che era già italiana. La Croazia divenne un regno, formalmente indipendente (ma il re – che però non si insediò mai – doveva essere l’italiano Ajmone di Savoia) con a capo l’ustaša Ante Pavelić, di fatto uno stato fantoccio, asservito prima agli italiani e poi ai tedeschi. 

Per quanto riguarda la provincia di Lubiana, annessa all’Italia, l’autorità civile fu costituita da un Alto commissario nella persona di uno squadrista della prima ora, il triestino Emilio Grazioli.

Ma sloveni, croati, montenegrini, serbi, tutti i popoli dei Balcani reagirono a questa occupazione. Già nel maggio del ’41 fu formato l’Osvobodilna Fronta, il fronte di liberazione sloveno che, collegandosi al movimento di liberazione che sotto la direzione di Tito andava formandosi in altre parti della Jugoslavia, ben presto arrivò a vere e proprie azioni partigiane. Iniziò da parte delle autorità italiane una forte repressione, che vide nell’inverno del ’42 una vera e propria escalation. Il comandante della seconda armata, il generale Mario Roatta, nel febbraio del 1942 emise la famigerata Circolare 3C. Si trattava di una serie di minuziose disposizioni ai vari reparti dell’esercito per combattere i partigiani e soprattutto per rompere l’appoggio popolare al movimento di liberazione. Prevedeva fra l’altro la fucilazione di ostaggi da prelevarsi soprattutto fra gli arrestati ritenuti comunisti,la fucilazione degli uomini adulti dei paesi presso i quali fossero avvenuti atti di sabotaggio nei confronti dell’esercito italiano o dei collaborazionisti, la deportazione in campi di concentramento del resto della popolazione, donne, vecchi, bambini l’incendio dei villaggi attuato dai reparti chimici, con i lanciafiamme, il bombardamento dei villaggi. Lo spirito che Roatta volle infondere con questa circolare è riassunto nella seguente frase, inserita nella circolare: «Non dente per dente ma testa per dente». Gli effetti di queste disposizioni si trovano in una grande quantità di documenti delle autorità italiane, ma esiste anche una memorialistica di ufficiali e soldati che hanno fatto parte dell’esercito italiano di occupazione che raccontano il comportamento dei loro reparti. Alcune di queste memorie sono state anche pubblicate, come il diario di don Pietro Brignoli, cappellano del II Reggimento della Divisione Granatieri di Sardegna, pubblicato, anche se non in versione integrale, nel 1973 dalla casa editrice Longanesi con il significativo titolo (preso da una frase del diario). La lettura di questo testo è più che sufficiente a dare un’idea dei crimini compiuti dall’esercito italiano in Jugoslavia fra il ’42 e il ’43. Uno degli eccidi più efferati, ordinato dal prefetto di Fiume Temistocle Testa fu quello di Podhum, un paese non distante da Fiume, in cui furono fucilati 104 uomini, il più giovane dei quali aveva 14 anni. 

Il provvedimento forse più impressionante deciso dai generali Roatta e Robotti, fu la costruzione di un immensa recinzione di filo spinato tutto attorno alla città di Lubiana. Nella notte fra il 22 e il 23 febbraio del 1942 la città, che allora contava circa 80 mila abitanti, venne trasformata in un enorme campo di concentramento divisa in settori da altri reticolati che impedivano il passaggio da una zona all’altra, perché nessun uomo adulto potesse sfuggire al controllo e all’arresto da parte delle autorità militari italiane.

In pochi giorni le caserme di Lubiana si riempirono di uomini arrestati e si decise di deportarli in campi di concentramento. Il primo di questi campi fu quello di Gonars in provincia di Udine, dove nel marzo del ’42 arrivarono i primi internati. Fra questi internati, c’erano le categorie produttive della città e soprattutto studenti, professori, artisti, l’intellighentia slovena (ed infatti di questa prima fase ci rimangono molti disegni fatti da internati). Il campo si riempì molto presto, e nell’estate del ’42 c’erano già 6500 internati, mentr i posti ufficialmente disponibili in base alle baracche, alle latrine, ecc. erano soltanto 2800. Glii internati “eccedenti”, soprattutto giovani studenti e operai, vennero sistemati in tende. Questo affollamento creò la prima grave epidemia di dissenteria e in seguito ci sarebbe stata anche un’epidemia di tifo. 

Ma i rastrellamenti e gli internamenti continuarono forsennati, anzi fra la primavera e l’estate del ’42 il gen. Robotti, comandante dell’XI Corpo d’Armata, mise in atto una serie di vaste operazioni antiguerriglia con migliaia di morti fra la popolazione civile, mentre decine di migliaia furono deportati, non più solo uomini, ma donne, vecchi, bambini (come si vede anche dalla mostra qui organizzata). Così nell’estate del ’42 il generale Roatta decise l’istituzione di nuovi campi, che si moltiplicarono in tutta Italia e anche nei territori occupati, nelle isole della Dalmazia, per la deportazione di decine di migliaia di persone, di cui ricordo di nuovo i luoghi principali Monigo di Treviso, Chiesanuova di Padova, Colfiorito, Tavernelle e Pietrafitta (Perugia), Renicci di Anghiari (Arezzo), Cairo Montenotte, (Savona), Fraschette di Alatri (Frosinone), Fertilia in Sardegna e poi Visco, ancora in provincia di Udine. 

Questi erano tutti campi con migliaia e migliaia di internati, gestiti dall’esercito, ma ce n’erano decine di altri più piccoli, gestiti dal Ministero dell’interno, praticamente in tutte le regioni d’Italia, e anche campi di lavoro, come quello di Fossalon di Grado in provincia di Gorizia. Nel Friuli-Venezia Giulia, ce ne fu anche un altro, a Poggio Terza Armata /Zdravščine, Comune di Sagrado. Oltre a questi, ne vennero istituiti dall’esercito altri nelle isole della Dalmazia, il più noto dei quali è quello di Rab, Arbe in italiano, un’isola annessa all’Italia dopo il 1941, che il generale Roatta trasformò in un vero e proprio inferno per oltre diecimila internati, uomini, donne, vecchi e bambini. Il campo, istituito all’inizio di luglio ’42, era un’immensa tendopoli, privo di qualsiasi struttura come latrine e cucine, e privo persino di acqua, che veniva portata con delle autobotti in quantità scarsissima. La situazione igienico-sanitaria si rivelò ben presto insostenibile, con la diffusione di malattie di ogni tipo e gli internati cominciarono a morire in gran numero, riducendosi in queste condizioni. Nell’autunno del ’42, dopo un’alluvione che devastò la tendopoli, seimila di questi internati furono trasferiti a Gonars, dove continuarono a morire di fame e malattie, mentre i precedenti internati di Gonars vennero trasferiti a Chiesanuova di Padova, a Monigo di Treviso e soprattutto a Renicci in provincia di Arezzo.

S Rab/Arbe si è ricostruita l’identità di circa 1500 morti, in un anno, anche se alcune testimonianze parlano di molti di più. A Gonars ne morirono oltre 500, e i resti della gran parte di essi sono raccolti in un Sacrario costruito nel cimitero del paese nel 1973, ad opera dell’allora Repubblica federativa di Jugoslavia. 71 di questi morti erano bambini di meno di un anno, e di questi 22 era nati proprio a Gonars e conclusero lì la loro breve esistenza. I referti medici scrivevano: grave atrofia muscolare o broncopolmonite in soggetto organicamente debilitato, cioè praticamente morivano di fame e per le malattie conseguenti. A Treviso morirono circa 220 persone, così come a Renicci, e numerose altre negli altri campi di concentramento, soprattutto in quelli insediati nelle isole della Dalmazia, come Melada e Mamula. Per capire come le autorità militari italiane considerassero questa tragedia che avveniva nei campi da essi gestiti, è significativa l’allucinante postilla che il gen. Gastone Gambara, nuovo comandante dell’XI Corpo d’armata scrisse il 17 dicembre ’42 di proprio pugno sotto una relazione medica che descriveva le tremende condizioni del campo di Arbe: «Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo…». 

La vicenda dei campi di concentramento fascisti finisce con l’8 di settembre, con la capitolazione dell’esercito italiano, quando i contingenti di guardia si dileguano, i portoni rimangono aperti e gli internati di molti campi posso uscire. Coloro che erano nei campi vicini al confine, come Gonars e Visco in Friuli, si dirigono in una lunghissima fila, verso i loro territori, dove trovano le loro case bruciate mesi prima dai lanciafiamme italiani. Molti si aggregano alle formazioni partigiane, a Rab gli internati formano addirittura un reparto partigiano, la Rabska Brigada, su cui recentemente è stato pubblicato un libro in italiano, da parte di uno dei comandanti di questa formazione, Anton Vratuša. Coloro che erano internati nei campi dell’Italia centrale, Renicci, Colfiorito, Fraschette di Alatri, riescono con più difficoltà a tornare a casa, e molti si fermano nella penisola e combattono contro i nazifasciste nelle prime formazioni partigiane della Resistenza italiana. Anche su questo recentemente è stato pubblicato un libro. Purtroppo, in qualche caso, come il comandante del campo consegna i prigionieri ai tedeschi.